Il fotografo dei luoghi abbandonati, decadenti, che costituiscono al contempo traccia del passato e segno del presente. Nicola Bertellotti attraverso reference artistiche e letterarie, fornisce spunti di lettura per decifrare le rovine che dominano i suoi scatti.

Abbiamo avuto modo di apprendere che la passione per la fotografia è nata in concomitanza con quella per il viaggio. Quale meta in particolare ricorda attraverso i suoi scatti?
Il Marocco, che ho attraversato nell’inverno del 2011. Le mie immagini di quel meraviglioso viaggio sono dedicate ai profili architettonici delle città imperiali e ai volti che raccontano la vita delle persone.
Nel manifesto della sua poetica abbiamo avuto il piacere di leggere diversi riferimenti letterari e filosofici, come Marcel Proust, John Ruskin, Edmund Burke. Che ruolo hanno nella sua idea d’arte?
Con Edmund Burke e il suo concetto di sublime ci si allontana dal modello di bellezza perfetta, armonica e attinta dal mondo delle idee per cercare nella rappresentazione artistica un conflitto, uno scontro ed è quello che cerco di trasmettere con le mie fotografie. Ruskin è stato fondamentale nella mia ricerca perché sostiene la necessità che ogni architettura trasmetta la memoria del passato e quindi invita al rispetto dei segni del tempo sui monumenti. Infine Proust: gli oggetti desueti e le stanze fatiscenti presenti nel mio lavoro rivestono la stessa funzione che ricopre nel grande scrittore francese la madeleine, quella di evocare il ricordo di un’età felice.
Viene chiamato “fotografo dei luoghi abbandonati”, cosa rappresentano per lei le architetture decadenti?
Ripercorro la tradizione culturale settecentesca che esalta il concetto e l’idea di rovina che può essere definita come tale solo grazie allo sguardo melancolico che vi esercita colui che la contempla. Le rovine moderne che fotografo, in quanto testimonianze residue dei processi e dei mutamenti della microstoria, ma, al contempo, segni “viventi” del presente, rappresentano il luogo di una frattura spazio–temporale, la quale costituisce, con il suo carattere di paradosso, l’essenza ineludibile della poesia della rovina. Ed è proprio questo ciò che mi muove.


“Fenomenologia della fine” è il suo primo libro pubblicato nel 2014, cosa intende quando parla di geografia dell’invisibile che fa da sfondo alla sua ricerca fotografica?
Ogni giorno tutti noi passiamo con indifferenza davanti a luoghi che nascondono ancora tanta bellezza e veri e propri tesori. Qualche anno fa ho intitolato una mia mostra a Napoli, a Castel dell’Ovo, “Hic sunt dracones”, un’espressione che veniva associata alle carte geografiche antiche per indicare le zone ancora inesplorate, proprio per alzare il velo su tanti posti del nostro paese ormai sono tornati ad essere fuori dalle mappe.
“In absentia” invece è la sua raccolta fotografica più recente, quale assenza predomina nei luoghi catturati dalla sua reflex?
Naturalmente quella dell’uomo. L’esclusione totale e sistematica di qualsiasi presenza o attività umana contribuisce ad avvolgere queste mie vedute architettoniche in un silenzio che ha l’effetto non solo di evocare la sospensione del tempo ma anche la sospensione dello spazio stesso, sia quello del paesaggio limitrofo, sia quello dell’interno dell’edificio.


Per concludere vorremmo chiederle cos’è per lei il paradiso perduto e quale fotografia ritiene più rappresentativa di questo concetto.
L’idea di paradiso perduto per me nasce dal rimpianto per la propria infanzia. È ricordata come un’epoca d’oro, probabilmente poiché il tempo vi scorre in un modo diverso, e vi si dispiegano figure che conferiscono al mondo una connotazione magica e meravigliosamente malinconica. Lo struggimento della sua perdita ha a che fare con le promesse che quel periodo della vita portava con sé e con il futuro allora immaginato. La fotografia che illustra meglio questo concetto è Ri-creazione, una scuola elementare abbandonata in cui è predominante l’elemento vegetale.
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